In questo numero di Succhyny:
riflessioni sul valore della bellezza e la percezione del proprio corpo + consigli di lettura e video a tema
extra illustrato di Giusy Lambiasi (@gioozee) sui pregiudizi nei confronti degli accenti meridionali
consigli su cosa vedere, leggere e ascoltare
Ti guardi e ti vedi brutta
Trigger warning: si parla di corpi, percezione di sé, canoni estetici interiorizzati e non accettazione del proprio aspetto, se questi argomenti potrebbero urtare la tua sensibilità passa al prossimo extra.
Da qualche mese ho cancellato l’abbonamento a Spotify premium, sempre per quella storia del tagliare dove si può in attesa di tempi migliori; questo comporta che, oltre a tutta una serie di pubblicità, io debba anche sottostare all’ascolto di canzoni sputate fuori un po’ a caso, in una sorta di dittatura musicale ideata per far saltare i nervi di chi non vuole pagare. Questa una premessa doverosa per spiegare come mai l’altro giorno mentre ero in doccia mi sono ritrovata a cantare Brutta di Alessandro Canino, canzone degli anni ‘90 che non ascoltavo da almeno una decade, da quando insomma non frequento più così spesso la macchina di mio padre e i suoi vecchi cd.
Tutti i tuoi amici
Guardano in salotto
Le altre fatte come attrici
Tu come un fagotto nello specchio
Non la smetti
Piangi e vedi solo i tuoi difettiBrutta
Ti guardi e ti vedi brutta
Ti perdi nella maglietta
E non vuoi uscire più
Per chi non la conoscesse, in sintesi la canzone racconta di questa quindicenne che durante la festa del suo compleanno corre in bagno a piangere perché le altre sono bellissime e lei invece si vede brutta; nessuno si accorge della sua fuga tranne colui che canta e conclude dicendo Piangi e non ti accorgi che mi piaci (Brutta) e mi piaci tutta. Ora, sorvolando sulla problematicità del credere che siccome tu ragazzo mi guardi e mi ritieni piacente allora io dovrei sentirmi validata e contenta, son sempre gli anni Novanta cosa pretendiamo, il testo mi ha subito catapultata in un episodio della mia adolescenza che rispunta sempre fuori in questi frangenti.
Ricordo perfettamente una precisa serata in discoteca durante la gita del terzo anno di liceo in crociera in Grecia (sì, lo so viaggio d’istruzione pazzesco, sono stata molto fortunata). È proprio come ve la state immaginando: una stanza con le luci matte, piena zeppa di adolescenti carichi a pallettoni, tutti e tutte tirati/e a lucido come richiede l’occasione. Qualcuno sta limonando duro in mezzo alla pista, qualcuno balla in cerchio, la maggior parte occupa i divanetti nella classica divisione maschi contro femmine, che non sia mai ci si possa contaminare in qualche modo. E poi ci sono io che dal nulla scoppio a piangere, complice probabilmente l’aver dormito due ore in quattro giorni, e anche quel mio compagno di classe su cui ero stata spinta per ballare qualche sera prima ma che era evidente avrebbe preferito leccare i pavimenti della hall piuttosto che trovarsi lì con me. A posteriori, ho capito che quel pianto arrivato dal nulla, e la successiva corsa a rintanarsi in cabina da sola (proprio come la brutta della canzone), sia stato scatenato dall’improvvisa e cocente consapevolezza che nonostante i tacchi vertiginosi, il trucco fatto da chi ne sapeva di più e il vestitino striminzito non mi vedevo bella, non abbastanza almeno rispetto alle altre che parevano mangiarsi il mondo e avevano già un campionario di riconoscimenti da parte dell’altro sesso da sciorinare all’occasione.
Mi pare evidente che all’epoca la percezione del mio corpo fosse profondamente influenzata dallo sguardo - soprattutto maschile- altrui, e che nello specchio io vedessi una versione di me filtrata dalla convinzione di non essere abbastanza per essere guardata. Infatti, credo davvero di aver pensato per molti anni con assoluta certezza che se me l’avessero chiesto avrei barattato senza dubbio la mia capacità di studiare e riuscire, i miei buoni voti e la mia affabilità con la possibilità di essere di una bellezza disarmante. Non volevo essere un tipo, una nella media, una che è intelligente, simpatica, affidabile e alla fine anche forse carina: volevo che la bellezza mi definisse. Avete sentito un brivido lungo la schiena? Perché io sì. Fino a qualche tempo fa mi vergognavo ad ammetterlo, trovo abbastanza agghiacciante che una adolescente dia così tanto valore all’estetica e all’apparire da arrivare a pensare di poter scambiare quell’unica cosa per tutto il resto. Per essere bella e basta.
Ecco che qui arriva un bel consiglio di lettura, una graphic novel (con dei disegni pazzeschi) che avrei sicuramente voluto leggere all’epoca e che lascerei casualmente nei pressi di una qualsiasi adolescente (ma non solo) anche oggi: si tratta di Bellezza di Hubert e Kerascoët (Bao publishing). Racconta di Baccalà una ragazza molto brutta che vorrebbe soltanto essere bellissima agli occhi di chi la guarda, e un giorno per magia viene accontentata. Ovviamente a causa di una serie di eventi questo più che in un regalo si trasformerà in una maledizione, e Baccalà imparerà che bisogna far attenzione a ciò che si desidera.

Come dice la fata a Baccalà è tutta una questione di percezione, e quella del mio aspetto negli anni si è modificata plurime volte, tutte però hanno a che fare con delle immagini ben precise che tendevo, e spesso tendo ancora, a sovrapporre alla mia. Queste sono ovviamente versioni canonizzate di un certo tipo di bellezza, quella stereotipata, con le gambe lunghe, la pancia piatta, i capelli chilometrici e lucenti, il seno grande ma non troppo, la pelle vellutata, il sedere con la forma giusta ecc. Quella insomma che mira a una sorta di perfezione preconfezionata, e che inevitabilmente crea degli standard verso cui tendere (spesso involontariamente) e fa diventare ai nostri occhi ciò che è diverso sbagliato: le braccia troppo smilze, le cosce grosse, il naso storto, i capelli crespi e così via. Difatti, è chiaro che per anni sia stata questa l’unica bellezza comunemente riconosciuta e comunicata ovunque (riviste, televisione, passerelle ecc.), e che pur avendo provato a decostruire i canoni estetici interiorizzati, e individuato i fattori esterni che ci hanno plasmato secondo questi valori, facciamo ancora fatica a volte a sganciarcene. Per esempio, davanti all’amica che ci racconterà dell’ex stronzo è probabile che per qualche secondo penseremo “Ma poi è così bella, come si fa”, come se invece tutte le altre la merda se la potessero un po’ aspettare non essendo delle dee. Questo meccanismo è spesso involontario e difficile da disinnescare, poiché ce l’hanno insegnato per tutta la vita che essere belle comporta un trattamento di favore, che non è una parte del tutto ma quello che conta.
Inoltre, ci tengo a sottolineare che il mio soliloquio non vuole in nessun modo sminuire il sentire di chi sta dall’altra parte, di chi da sempre è stata etichettata come bella bellissima e ha dovuto dimostrare di essere anche altro, non è una gara a chi risente di più dell’oggettivazione femminile, e inoltre non esclude il fatto che una persona possa comunque guardarsi allo specchio e non piacersi. Tra l’altro una perfetta sintesi di questo complesso rapporto con il proprio aspetto la si trova sul supremo Tiktok, dove recentemente è andato virale un trend che dice “Sono così tanto che l’essere bella è la cosa meno importante” in una sorta di rivendicazione del proprio valore a prescindere dall’estetica, e poi c’è il contro-trend che invece afferma “Sono così poco che l’essere bella è la cosa più importante” fatto da chi appunto è stata portata a convincersi che la bellezza sia l’unica cosa che la definisce, due facce dello stesso specchio. Infatti, finché non riusciremo ad avere su noi e sugli altri uno sguardo privo di paradigmi estetici assoluti continueremo a subirli, a sentirci mancanti e a pensare, ogni tanto, che vorremmo solo essere bellissime agli occhi di chi ci guarda, proprio come Baccalà.
Piccola nota a margine: scrivendo il pezzo ho utilizzato quasi sempre il genere femminile perché parlo di ciò che conosco e la mia posizione rispetto al tema non può esulare dal fatto che io sia donna, ma mi piacerebbe sapere anche come da parte loro gli uomini vivono, sia in adolescenza che successivamente, il rapporto con un’estetica da incarnare e questo quali cortocircuiti crei, se vi va vi aspetto nei commenti.
Contenuti extra per approfondire il tema:
Michela Murgia sulla bellezza come problema etico e non estetico.
Chiara Piazzesi, docente di sociologia, nel suo TEDx parla della condanna della bellezza: come rompere l'obbligo morale delle donne.
Articolo sul chubby filter di TikTok che dimostra come la grassofobia non se n’è mai andata.
Tutti i modi in cui l’Ozempic sta cambiando il mondo e come questo ha a che fare con la considerazione del nostro corpo.
Il tuo accento non si sente
Extra di Giusy Lambiasi (@gioozee)
🧃SUCCHYNY CONSIGLIA🧃
Da leggere:
Hamid Naderi Yeganeh, l’artista iraniano che usa formule matematiche per creare opere d’arte.
Articolo che riflette sull’economia della solitudine e di come nelle app ci siano gli amici, e là fuori non più feste ma eventi.
I preliminari non esistono, si fa sesso anche senza penetrazione.
Non chiamiamolo “negozio dei cinesi” e cerchiamo un’espressione non etnicizzante (vi vedo che alzate gli occhi al cielo, eh signora mia non si può più dire niente, ma le discriminazioni risiedono nelle cose più piccole).
Perché dopo anni a rincorrere le fotocamere migliori, adesso ci piacciono i pixel e le foto sgranate.
Da vedere:
Questo mese ho letto Una stanza piena di gente di Keyes, romanzo incredibile che racconta la vera storia di Milligan e delle sue 24 personalità, in questo video Elisa Truecrime racconta benissimo tutta la vicenda (se non ve la sentiste di affrontare la lettura che è comunque perturbante).
Il patriarcato è come se un uomo avesse il suo stivale sopra il collo di una donna.
Gli adulti della nostra generazione saranno anche disastrati ma sono sicuramente i genitori più simpatici di sempre.
Uno dei più famosi quadri di Van Gogh nasconde una rappresentazione dell’ultima cena? Belle bellissime queste teorie matte.
Perché è importante fare testamento digitale prima di morire.
Da ascoltare:
A cosa servono i russi? Podcast di Paolo Nori in 7 puntate che parla di letteratura russa.
Qui l’ultima puntata di Caffè design, un podcast che parla di innovazione, design e marketing.
Se sei arrivata/o fino a qua giù, grazie!
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🧃Al prossimo mese🧃
Che belle parole hai scritto! Proprio ieri ho pianto perché il mio corpo è molto cambiato. Mi sono sentita molto in colpa perché, mi sono detta, a trent'anni non si piange per queste stronzate dopo tutti i saggi, i film, le newsletter. E invece ahimè la teoria va velocissima, ma la pratica è sempre un passo più difficile.
Nel quadernino ho un pezzo in progettazione che si aggancia benissimo a questi tuoi temi. È bello trovare sorelle di newsletter. (Grazie per questo bel numero 🩷).